IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE DELLA CAMPANIA 
                           (Sezione Prima) 
 
    Ha pronunciato la presente ordinanza  sul  ricorso  n.  4798/  14
R.G., proposto da: Luigi De Magistris, rappresentato e  difeso  dagli
avvocati Giuseppe Russo, Stefano Montone e Lelio  Della  Pietra,  con
domicilio eletto presso Giuseppe Russo in Napoli, via Cesario Console
n. 3; 
    Contro Ministero dell'Interno - U.T.G. - Prefettura di Napoli, in
persona  del  Prefetto  p.t.   rappresentato   e   difeso   ex   lege
dall'Avvocatura  Distrettuale  dello  Stato  di  Napoli,  presso  cui
domicilia in Napoli, via Diaz n. 11; 
    e con l'intervento di ad adiuvandum: 
        Comune di Napoli, rappresentato e difeso dagli avvocati Fabio
Maria Ferrari, Anna Pulcini,  Bruno  Crimaldi,  Antonio  Andreottola,
domiciliata in Napoli, piazza Municipio, Palazzo San Giacomo,  presso
gli uffici dell'Avvocatura comunale; 
    ad opponendum: 
        Manfredi Nappi, rappresentato e difeso dall'avvocato  Alberto
Saggiomo, con domicilio eletto in Napoli, piazzetta Terracina n. 1; 
    Per  l'annullamento  previa   sospensione   dell'efficacia,   del
provvedimento del Prefetto di Napoli emesso in data  1.10.2014  prot.
n. 87831, di accertamento costitutivo della sussistenza  della  causa
di sospensione del ricorrente dalla carica di Sindaco del  Comune  di
Napoli. 
    Visti il ricorso e i relativi allegati; 
    Visto  l'atto  di  costituzione   in   giudizio   del   Ministero
dell'Interno e della Prefettura di  Napoli,  nonche'  del  Comune  di
Napoli e di Manfredi Nappi; 
    Vista la domanda di sospensione dell'esecuzione del provvedimento
impugnato, presentata in via incidentale dalla parte ricorrente; 
    Visto l'art. 55 cod. proc. amm.; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Ritenuta la propria giurisdizione e competenza; 
    Data per letta nella camera di consiglio del 22 ottobre  2014  la
relazione del consigliere Paolo Corciulo  e  uditi  per  le  parti  i
difensori come specificato nel verbale; 
    Con provvedimento n. 87831 del 1° ottobre 2014 il Prefetto  della
Provincia di Napoli ai sensi dell'art. 11, comma  5,  del  d.lgs.  31
dicembre 2012 n. 235 ha dichiarato di aver  accertato  nei  confronti
del Sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, la sussistenza della causa
di sospensione dalla carica di cui al medesimo art. 11, primo  comma,
lettera a) del medesimo decreto legislativo. 
    Nel decreto  prefettizio  si  rappresenta  che  con  sentenza  n.
3928/12 Reg. Gen.  la  Seconda  Sezione  del  Tribunale  di  Roma  ha
condannato in primo grado il predetto Sindaco di Napoli alla pena  di
anni uno e mesi tre di reclusione ed  all'interdizione  dai  pubblici
uffici per anni uno, con il beneficio della sospensione  condizionale
della pena, per i delitti ascritti ai capi A, B, C,D, E, F,  G  ed  H
della  rubrica,  che,  dal  decreto  che  dispone  il   giudizio   n.
23078/09/GIP del 21 gennaio 2012, risultavano  essere  reati  di  cui
all'art. 323 c.p. 
    Trattandosi di fattispecie delittuosa  per  cui  e'  prevista  la
sospensione di diritto dalle cariche elettive nei  confronti  di  chi
abbia riportato condanna, omessa la  garanzia  partecipativa  di  cui
all'art. 7 della  legge  7  agosto  1990  n.  241,  per  esigenze  di
celerita' ed attesa la natura vincolata del potere,  il  Prefetto  di
Napoli ha notificato all'organo che aveva  proceduto  alla  convalida
dell'elezione l'avvenuto accertamento dei presupposti di legge per la
sospensione del Sindaco dalla carica. 
    Con ricorso ritualmente  notificato  e  depositato  il  giorno  8
ottobre 2014, il dottor Luigi De Magistris  ha  impugnato  innanzi  a
questo   Tribunale   il   provvedimento   prefettizio,    chiedendone
l'annullamento, previa concessione di idonee misure cautelati. 
    Si sono costituiti in giudizio il Prefetto di Napoli, che,  oltre
a svolgere difese nel  merito  della  controversia,  ha  eccepito  il
difetto  di  giurisdizione  amministrativa,  assumendo  trattarsi  di
questioni inerenti alla  tutela  di  un  diritto  soggettivo  la  cui
lesione sarebbe direttamente riconducibile alla legge. 
    Si  e'  costituito  in  giudizio  anche  il  Comune  di   Napoli,
sostenendo le ragioni di parte ricorrente. 
    Ha spiegato altresi' intervento ad opponendum il signor  Manfredi
Nappi, in qualita' di cittadino elettore. 
    Alla camera di consiglio del 22  ottobre  2014,  all'esito  della
discussione, la causa e' stata trattenuta per la decisione. 
    Deve essere preliminarmente esaminata l'eccezione di  difetto  di
giurisdizione amministrativa sollevata dalla difesa erariale, secondo
la quale la controversia avrebbe ad oggetto  la  tutela  del  diritto
soggettivo  di  elettorato  passivo  di   cui   all'art.   51   della
Costituzione,  di  guisa  che  ogni  questione  di  eleggibilita'   e
decadenza - di cui la sospensione costituirebbe fattispecie  connessa
- rientrerebbe nella cognizione del giudice  civile  ai  sensi  degli
artt. 9-bis e 82 del d.p.r.  16  maggio  1960  n.  570,  ov'anche  la
limitazione al relativo esercizio fosse riconducibile all'adozione di
un provvedimento amministrativo. 
    L'eccezione e' infondata. 
    Osserva   il   Collegio   che,   esclusa   la    configurabilita'
nell'ordinamento di eccezionale di favor per i diritti di  elettorato
passivo, tali da  renderli  impermeabili  rispetto  agli  effetti  di
un'azione amministrativa autoritativa idonea a conformarli  -  tanto,
anche  nella  scia  dell'inconfigurabilita'   generale   di   diritti
soggettivi resistenti - ai fini della  verifica  della  giurisdizione
occorre guardare alla struttura della  fattispecie  normativa  e,  in
particolare, all'intensita' che la legge nel caso di specie riconosce
all'intermediazione provvedimentale; ad avviso del Collegio,  non  si
tratta  di  verificare  se  l'effetto  compressivo  del  diritto   di
elettorato passivo sia o meno conseguenza di una scelta discrezionale
del Prefetto e  nemmeno  se  l'attivita'  di  accertamento  a  questo
richiesta circa la  sussistenza  dei  presupposti  sia  connotata  da
profili  tecnico-discrezionali,   dovendosi   invece   accertare   se
l'effetto sospensivo si  determini  soltanto  una  volta  emanato  il
decreto prefettizio.  Al  quesito  non  puo'  che  rendersi  risposta
positiva; invero, che il provvedimento giudiziario di condanna penale
del  titolare  della  carica  sia  condizione  necessaria,   ma   non
sufficiente per la limitazione  del  diritto  di  elettorato  passivo
trova conferma nella stessa costruzione della fattispecie generale ed
astratta in cui si affida al Prefetto, quindi ad un  organo  distinto
da quello dell'ente di appartenenza del  titolare  della  carica,  la
verifica esterna delle  condizioni  ostative  al  mantenimento  della
stessa,  e  quindi  il  compimento  di  un'indefettibile  presupposta
attivita' di verifica e di controllo i cui  esiti  convergono  in  un
atto di natura provvedimentale che, integrando il precetto normativo,
ne determina l'applicazione al caso concreto,  cosi'  consentendo  la
produzione dell'effetto sospensivo; e poiche', secondo principi ormai
da tempo consolidati, la  giurisdizione  amministrativa  generale  di
legittimita' si radica in funzione del solo fatto  dell'immanenza  di
un potere autoritativo il cui esercizio  la  legge  richiede  per  il
prodursi dell'effetto tipico considerato, senza,  cioe',  che  a  tal
fine assumano decisivo rilievo anche  sue  possibili  caratteristiche
intrinseche, la posizione giuridica  soggettiva  del  ricorrente  non
puo' che essere quella «naturale»  di  interesse  legittimo,  la  cui
cognizione appartiene a questo Tribunale, anche dal  punto  di  vista
della competenza territoriale. 
    Passando   al   merito,   va    rilevato    che,    a    sostegno
dell'impugnazione, il ricorrente ha proposto sette mezzi di  censura,
i primi tre avverso l'atto prefettizio  di  accertamento,  gli  altri
volti a prospettare questioni di  legittimita'  costituzionale  della
normativa applicata. 
    Con  il  primo  motivo  di  ricorso  e'  stato  dedotto  che   la
sospensione  del  ricorrente  dalla   carica   di   Sindaco   sarebbe
illegittima, in quanto non fondata su un  provvedimento  giudiziario,
come invece previsto dall'art. 11 comma quinto del d.lgs. 31 dicembre
2012 n. 235; invero, al momento in cui ha provveduto, il Prefetto  di
Napoli non avrebbe potuto che fare riferimento ad un  dispositivo  di
sentenza, atto che non figura  tra  i  provvedimenti  giudiziari  che
l'art.125 c.p.p. circoscrive  alle  sole  categorie  della  sentenza,
dell'ordinanza e del decreto; d'altronde, nel  dispositivo  non  sono
specificati i capi di imputazione, tanto e' vero che il Prefetto, per
accertare la sussistenza di quelle imputazioni ai sensi dell'art. 323
c.p. la cui  condanna  e'  stata  causa  di  sospensione,  ha  dovuto
richiamare il decreto che dispone  il  giudizio,  atto  ben  distinto
dalla sentenza. Rileva poi il ricorrente che la questione non sarebbe
di  ordine  meramente  formale,  dal  momento  che  la  conformazione
strutturale  e  la  caratterizzazione  funzionale  del   procedimento
disciplinato dall'art. 11 del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235  tendono
al raggiungimento di un punto di equilibrio tra la tutela dei diritti
di  elettorato  attivo  e  passivo  e  la  salvaguardia   di   valori
costituzionali volti ad assicurare l'idoneita'  morale  dei  pubblici
amministratori, proprio attraverso l'emanazione di una  sentenza,  la
pubblicazione della cui motivazione costituisce il primo momento  dal
quale sarebbe possibile  per  l'autorita'  competente  verificare  la
sussistenza della causa di sospensione dalla carica pubblica. Con  la
seconda  censura  e'  stata  contestata  la  carenza  di  motivazione
dell'atto impugnato, dal momento che le  cause  di  sospensione  sono
state rintracciate in un atto diverso  dalla  sentenza  di  condanna,
come invece previsto dalla norma. 
    Infine, sul presupposto della fondatezza dei primi due motivi  di
impugnazione, e' stata lamentata l'intempestivita'  dell'accertamento
della  causa  di  sospensione,  la  cui  celerita'   si   colora   di
illegittimita' alla  luce  del  fatto  che  il  Prefetto  si  sarebbe
riferito al solo dispositivo, senza attendere anche la  pubblicazione
della motivazione della decisione del Giudice penale. 
    Con il quarto motivo e' stato  dedotto  che  la  sospensione  del
ricorrente dalla carica di Sindaco di Napoli sarebbe  conseguenza  di
un'interpretazione retroattiva degli artt. 10, comma 1, lettera c)  e
11, comma 1, lettera a) del d.lgs. 31 dicembre 2014 n. 235  e  quindi
non conforme ai diritti di elettorato ed  ai  principi  di  cui  agli
artt. 2, 51 e 97 della Costituzione. 
    Al riguardo, il ricorrente ha evidenziato che  al  tempo  in  cui
aveva deciso di candidarsi e fino alla sua proclamazione  a  Sindaco,
avvenuta  il  1°  giugno  2011,  non  figurava  tra   le   cause   di
incandidabilita' e di sospensione da tale carica l'aver riportato una
condanna per il delitto di cui all'art. 323 c.p. Solo  con  l'entrata
in vigore del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235,  ossia  dal  5  gennaio
2013, nell'ordinamento e' stata introdotta, come  causa  ostativa  la
condanna anche per tale fattispecie delittuosa; e poiche' costituisce
principio generale dell'ordinamento quello di irretroattivita'  della
legge, altra sarebbe la disciplina legislativa applicabile  al  tempo
della candidatura del ricorrente e differenti i requisiti  prescritti
per l'accesso agli uffici pubblici ed alle cariche  elettive  cui  si
riferisce l'art. 51 della Carta. 
    Sulla base dell'appartenenza del diritto  di  elettorato  passivo
alla  sfera  dei  diritti  inviolabili  di  cui  all'art.   2   della
Costituzione,  e'  stato  altresi'  rilevato  come  ogni   operazione
interpretativa debba ispirarsi ad un regime di favor per chi  intenda
accedere a cariche pubbliche ed elettive;  del  resto,  non  potrebbe
negarsi rilevanza alla situazione di chi, intenzionato  a  candidarsi
in una competizione elettorale, debba essere consapevole fin da  tale
momento delle condizioni ostative alla nomina o al mantenimento della
carica; in altre parole, un'interpretazione della lettera della legge
conforme alla Costituzione dovrebbe essere  nel  senso  non  gia'  di
limitarne l'applicazione a sentenze  di  condanna  che  sopravvengano
rispetto  alla  candidatura,  ma  di  ritenere   irrilevanti   quelle
riportate per fattispecie delittuose che in quel momento storico  non
costituivano cause di incandidabilita' o sospensione;  pertanto,  una
sopravvenienza incidente sulla candidatura o sul  mantenimento  della
carica e' costituzionalmente  legittima,  solo  se  riferita  al  suo
presupposto fattuale, inteso come sentenza di condanna, e  non  anche
all'applicabilita' della previsione normativa generale  ed  astratta,
stante il principio generale di irretroattivita' della legge. 
    Diversamente opinando, il ricorrente ha chiesto trasmettersi  gli
atti  alla  Corte  Costituzionale  per  l'esame  della  questione  di
costituzionalita'  in  relazione  agli  artt.  2,  51  e   97   della
Costituzione da parte  della  norma  legislativa  applicata  al  caso
esame. 
    Inoltre, l'interpretazione  della  norma  legislativa  che  regge
l'adozione del provvedimento  prefettizio  impugnato  si  rivelerebbe
anche  in  contrasto  il  diritto  di  elettorato   attivo,   potendo
determinare un'alterazione dei risultati del procedimento elettorale,
e, quindi, della libera espressione  di  voto,  principio  consacrato
dall'art. 3  del  Protocollo  Addizionale  alla  Convenzione  per  la
salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle  Liberta'  Fondamentali  e
recepito  nell'ordinamento  interno  attraverso  la  valvola  di  cui
all'art. 117 della Costituzione; invero, la modifica dei requisiti di
candidabilita' dell'eletto successivamente all'espressione  del  voto
finisce per vanificare la  volonta'  espressa  dal  corpo  elettorale
eliminandone gli effetti per cause irrilevanti al momento in  cui  la
scelta  elettorale  si  era  manifestata  in  favore  di  determinati
candidati, in seguito dichiarati non piu'  idonei.  Anche  in  questo
caso, se condivisa dal giudice adito  l'interpretazione  della  legge
fatta propria nel provvedimento  impugnato  e  ove  non  ritenuta  la
stessa disapplicabile sebbene in contrasto con la CEDU, e' chiesta la
sottoposizione all'esame della Corte Costituzionale  della  questione
di compatibilita' costituzionale dell'art. 10, comma 1, lettera c)  e
11, comma, 1 lettera a) del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 con l'art.
117 della Carta. 
    Con   la   quinta   censura   vengono   sollevati    dubbi    di'
costituzionalita' del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 sotto il profilo
della ragionevolezza e proporzionalita'. Al riguardo, ha osservato il
ricorrente che la disciplina legislativa previgente  -  segnatamente,
l'art. 15 della legge 19 marzo 1990 n. 55 e successivamente gli artt.
58 e 59 del d.lgs.  8  agosto  2000  n.  267  -  aveva  raggiunto  un
apprezzabile punto di equilibrio tra il diritto di elettorato  attivo
e passivo e le esigenze  di  tutela  dell'imparzialita'  e  del  buon
andamento degli uffici pubblici, ove confliggenti in relazione ad  un
determinato soggetto; a tal fine, infatti,  erano  state  individuate
specifiche fattispecie di  reato  che,  in  considerazione  del  loro
oggettivo indice di pericolosita', ben avrebbero potuto  giustificare
la cedevolezza dei richiamati diritti di elettorato, nel caso in  cui
una sentenza di condanna divenuta definitiva fosse stata  pronunciata
nei confronti di un candidato, anche dopo la sua elezione. Ancora, la
medesima disciplina legislativa, nel porre il divieto  di  candidarsi
per le descritte ipotesi, aveva anche proporzionalmente calibrato  la
conseguenze dell'intervento di una sentenza di condanna nei confronti
di chi fosse divenuto  pubblico  amministratore,  disponendo  che  la
misura cautelare della sospensione operasse nei casi  di  reati  piu'
gravi fin dalla condanna  di  primo  grado,  mentre  per  fattispecie
delittuose minori occorreva attendere la pronuncia di secondo  grado;
in altri termini, si rapportava l'astratta  gravita'  del  titolo  di
reato al maggiore - e,  quindi,  presumibilmente  piu'  affidabile  -
livello di stadiazione dell'accertamento processuale. 
    Ebbene, l'attuale disciplina legislativa, applicata al ricorrente
non solo avrebbe aggravato  tale  regime  introducendo  nuove  figure
delittuose ritenute sintomatiche di esposizione a pericolo dei valori
costituzionali  che  presidiano  la  qualita'  dell'organizzazione  e
dell'azione dei pubblici uffici, quali il delitto di abuso d'ufficio,
di cui all'art. 323 c.p., ma avrebbe anche eliminato,  specificamente
sotto il profilo della proporzionalita', la distinzione tra cause  di
sospensione collegate a sentenze non definitive di  primo  e  secondo
grado. 
    Tale inasprimento delle cause ostative  all'ottenimento  ed  alla
conservazione delle cariche pubbliche  eccederebbe,  a  giudizio  del
ricorrente, i precedenti limiti di  compatibilita'  coni  diritti  di
elettorato attivo e passivo gia' ritenuti conformi  a  Costituzionale
da parte della Consulta nella sentenza n. 25 del 2002. 
    Con la sesta censura e' stata dedotta l'incostituzionalita' degli
artt. 11, comma primo, lettera a) e  10,  comma  1,  lettera  c)  del
d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235  per  violazione  dell'art.  76  della
Costituzione; invero, la legge 6 novembre 2012 n.  190,  all'art.  1,
comma 64,  nell'affidare  al  Governo  il  compito  di  procedere  al
riordino  ed  all'armonizzazione  della  normativa  in   materia   di
incandidabilita' alle cariche indicate nel comma 63, stabiliva tra  i
principi e criteri di direttivi per il legislatore delegato quello di
disciplinare ipotesi di sospensione e decadenza di diritto in caso di
sentenza definitiva di condanna per delitti  non  colposi  successiva
alla candidatura o all'affidamento della carica; l'aver il d.lgs.  31
dicembre 2012 n. 235 previsto cause di sospensione dalla carica anche
per l'ipotesi di sentenza di condanna non  definitiva  costituiva  un
eccesso di delega legislativa; e di  limitare  la  sospensione  dalla
carica nei soli di casi  di  sentenza  definitiva  sarebbe  stata,  a
giudizio del ricorrente, anche l'effettiva volonta'  del  legislatore
delegante,  come  si  evincerebbe  dalla  documentazione  degli  atti
preparatori alla legge delega 6 novembre 2012 n. 190; in particolare,
in caso di condanna definitiva, mentre per le  cariche  non  elettive
era stata proposta la decadenza  tout  court,  per  quelle  elettive,
quale quella di Sindaco,  la  misura  applicabile  sarebbe  stata  la
sospensione, volendosi, piu' limitatamente,  circoscrivere  l'effetto
inibitorio ad un temporaneo allontanamento dalla  carica,  senza  con
cio'  anche  determinare   lo   scioglimento   dell'assemblea,   come
accadrebbe in caso di decadenza. 
    Il ricorrente ha anche esaminato la possibilita' di pervenire  ad
un'interpretazione conforme  a  Costituzione  della  legge  delegata,
sebbene escludendo tale eventualita' proprio in ragione della  chiara
formulazione del dictum normativo. 
    A tal proposito, non si ritiene accettabile  il  presupposto  per
cui la sospensione sarebbe misura cautelare rispetto alla  successiva
decadenza,  configurandosene  la  funzione   anticipatoria   rispetto
all'ipotesi di condanna definitiva; invero,  nessun  collegamento  vi
sarebbe nella legge delega tra durata della sospensione ed esito  del
giudizio di appello in sede  penale;  sospensione  che,  in  caso  di
sentenza definitiva, si giustificherebbe non solo con  le  richiamate
esigenze di conservazione della volonta' elettorale,  almeno  per  il
periodo successivo alla scadenza della misura cautelare, ma anche con
esigenze  di  proporzionalita'  riconducibili  alla  circostanza  che
l'ipotesi  della  condanna  per  il  delitto  di   abuso   d'ufficio,
fattispecie  indubbiamente  di  minore  gravita'  rispetto  ad  altre
previste dalla legge delegata, mai era stata in precedente  presa  in
considerazione dal legislatore come  causa  ostativa  all'accesso  ed
alla conservazione di una carica pubblica. 
    Pertanto, l'inconfigurabilita' di un'interpretazione dell'art.11,
primo comma lettera a) e dell'art. 10, primo comma,  lettera  c)  del
d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 che possa  rendere  tali  disposizioni
conformi ai principi della legge delega, impone la devoluzione  della
questione alla Corte Costituzionale. 
    Con la settima ed ultima censura e' stato denunciata  la  mancata
copertura di delega legislativa per  l'introduzione  dell'ipotesi  di
condanna per il delitto di cui  all'art.  323  c.p.  quale  causa  di
sospensione e decadenza dalla carica di Sindaco; invero, la  legge  6
novembre  2012  n.  190  all'art.  1,  comma  64,  lettera  h)  aveva
consentito al legislatore delegato di individuare  ulteriori  ipotesi
di incandidabilita' per tale carica, ma solo  per  delitti  di  grave
allarme sociale, ossia quelli di  cui  all'art.  51,  commi  3-bis  e
3-quater c.p.p.; il ricorrente ha cosi' evidenziato che se la  delega
legislativa era stata correttamente esercitata con l'art.  10,  comma
1, lettera b) del  decreto  legislativo  31  dicembre  2012  n.  235,
altrettanto non poteva ritenersi per la norma di cui alla  successiva
lettera c), non figurando  il  delitto  di  abuso  d'ufficio  tra  le
fattispecie indicate dall'art. 51 c.p.p. 
    In disparte i primi tre motivi  di  impugnazione,  che  hanno  ad
oggetto  vizi  inerenti  esclusivamente  all'impugnato  provvedimento
prefettizio di sospensione, occorre preliminarmente esaminare i dubbi
di legittimita' costituzionale sollevati da parte ricorrente. 
    Invero, e' manifesta la pregiudizialita'  logica  che  impone  al
giudice  adito  di  anteporre  la  verifica  della  rilevanza  e  non
manifesta infondatezza di questioni  di  legittimita'  costituzionale
degli artt. 10 e 11 del d.lgs. 31  dicembre  2012  n.  235,  che  ove
fondate, si rivelerebbero decisive ai fini dell'esercizio stesso  del
potere  di  sospensione,   a   prescindere,   cioe',   dal   positivo
accertamento di condizioni patologiche  direttamente  ascrivibili  al
decreto prefettizio  di  sospensione,  siccome  sanabili  e  comunque
superabili, una volta avvenuto il deposito  della  motivazione  della
sentenza del giudice penale. 
    Innanzitutto,  si   evidenzia   che   tutte   le   questioni   di
costituzionalita' proposte nei motivi quarto, quinto, sesto e settimo
del ricorso assumono carattere di rilevanza per  la  definizione  nel
merito  della  controversia;  invero,  risolvendosi  in  distinti  ed
autonomi  mezzi  di  impugnazione,  ciascuno  idoneo,  ove   ritenuto
fondato, a determinare l'illegittimita' dell'impugnato  provvedimento
di sospensione, e quindi il suo annullamento,  degli  stessi  occorre
procedere ad una compiuta delibazione. 
    Deve  essere  ritenuta  manifestamente  infondata  la   questione
proposta con il quinto motivo. 
    Invero, non puo' essere sufficiente a provocare un  incidente  di
costituzionalita'  il  mero  aggravamento  da  parte  del  d.lgs.  31
dicembre 2012 n. 235 delle condizioni e dei presupposti per l'accesso
e per la conservazione delle cariche pubbliche elettive, dal  momento
che il ricorso alla Corte Costituzionale  si  giustifica  in  ragione
della denuncia di uno specifico ed oggettivo contrasto con principi e
valori  della  Carta  da  parte  del  potere  legislativo  statale  o
regionale, senza che si possa risolvere, come proposto  nel  caso  di
specie,  in  una  generica  richiesta  di   verifica   della   tenuta
costituzionale della norma denunciata, per il solo  fatto  che  abbia
modificato in  senso  restrittivo  il  regime  giuridico  previgente;
d'altronde,  senza  entrare   nel   merito   della   discrezionalita'
legislativa, e' sufficiente osservare che,  sotto  il  profilo  della
ragionevolezza, l'elevazione della soglia di protezione in materia di
accesso  alle  cariche  pubbliche  non   confligge   con   i   valori
costituzionali di cui all'art. 51 della Carta, ove  sia  giustificata
dall'esigenza di allontanare da tali munera chi sia reso responsabile
anche di delitti contro  l'amministrazione  pubblica,  fatti  il  cui
verificarsi e' stato  accertato  in  sede  giudiziaria  con  sentenza
definitiva, ai fini della decadenza, o non definitiva ai  fini  della
sospensione cautelare dalla carica. Quanto, poi, alla violazione  del
principio di proporzionalita', la questione di  costituzionalita'  e'
manifestamente infondata, dal momento che si pretende di  qualificare
la gravita' da fatto  ostativo  alla  sola  qualificazione  operatane
dalla norma penale, mentre rientra nella piena  discrezionalita'  del
legislatore  individuare,   quali   causa   di   indegnita'   morale,
fattispecie di reato che sebbene, aventi pena  edittale  diversa,  ai
fini  del  venir  meno  delle  condizioni  soggettive  di  accesso  e
conservazione   della   carica,   presentano   una   non    dissimile
sintomaticita' indiziaria. 
    Anche la questione di legittimita' costituzionale sollevata nella
sesta censura e' manifestamente infondata. 
    Al riguardo, non possono che essere condivise  le  considerazioni
espresse nella sentenza 14 febbraio 2014 n. 730 della III Sezione del
Consiglio di Stato;  investito  della  questione,  quel  Collegio  ha
superato la formale contraddizione esistente nell'art. 1,  comma  64,
lettera  m)  della  legge  6  novembre  2012  n.  190,  accedendo  ad
un'interpretazione logico sistematica del dato  normativo  letterale,
rendendone coerente il contenuto con il principio di cui all'art.  76
della Costituzione. 
    Innanzitutto, anche in ragione di quanto si andra' ad esporre nel
prosieguo, e' ampiamente condivisibile l'assunto per cui gli istituti
della sospensione e della decadenza costituiscono species di un  piu'
ampio genus, costituito dalle misure inibitorie dell'accesso e  della
conservazione della carica pubblica; altro non e' dato  evincere  dal
dato normativo attuale che, a  prescindere  dai  lavori  preparatori,
costituisce senza dubbio l'effettiva ultima volonta' del legislatore,
ratione temporis. E se la sospensione, per sua natura, non  puo'  che
essere misura anticipatoria, la sua stessa  strumentalita'  non  puo'
difettare di un istituto di cui costituisce complemento e che  ne  e'
volto a confermare gli  effetti  sostanziali,  tendenzialmente  senza
soluzione di continuita', effetti in un primo momento inevitabilmente
temporanei, proprio  per  la  natura  strumentale  della  sua  intima
funzione. Ne' valga  obiettare  che  nell'ordinamento  sono  presenti
anche fattispecie di sospensione autonome, cioe' che risolvono  nella
loro temporanea efficacia la ratio legis; invero, nel caso di specie,
tale soluzione interpretativa non si rivela percorribile, in  ragione
del dato letterale della norma che rivela senz'altro la volonta'  del
legislatore di collegare funzionalmente entrambi gli istituti  ad  un
unico presupposto, ossia  l'esistenza  di  una  condanna  penale  per
determinate categorie di reati. 
    Quanto alla  prospettata  lettura  del  dato  normativo  tale  da
esigere una condanna definitiva come presupposto  per  l'operativita'
sia della sospensione che della decadenza, oltre a richiamare  quanto
ritenuto  dal  Consiglio  di  Stato  riguardo  al   principio   della
continenza del primo istituto nel secondo, per effetto del richiamato
vincolo  di  strumentalita',  va  evidenziato  che  la  volonta'  del
legislatore delegante, quale emerge dall'art. comma  64,  lettera  g)
della legge 6 novembre 2012 n. 190, e' stata nel senso di affidare il
compito di  operare  una  ricognizione  nella  normativa  vigente  in
materia di incandidabilita', limitando l'introduzione di una  vera  e
propria novella ai soli casi di cui alla successiva lettera  h),  tra
cui non figurano interventi sull'istituto della sospensione come fino
a  quel  momento  disciplinata,  cioe'  come  misura   temporanea   e
strumentale rispetto alla decadenza (art.15 legge 19  marzo  1990  n.
55, artt. 58 e 58 d.lgs. 8 agosto 2000 n. 267). 
    Ne  consegue  che  del  dato  normativo  non  puo'  che  offrirsi
un'interpretazione  che  lo  renda  riferibile  ad  una  sentenza  di
condanna «che  sia  divenuta  definitiva»  rispetto  all'applicazione
della decadenza dalla carica, intesa  come  misura  finale,  di  cui,
pertanto,  la   sospensione   costituisce   effetto   inibitorio   di
stadiazione che, in quanto tale, non puo' che riferirsi a presupposti
storicamente antecedenti rispetto alla definitivita' della  pronuncia
del giudice penale. 
    In tale prospettiva non  puo'  condividersi  l'assunto  di  parte
ricorrente  che,  al  fine  di   configurare   l'operativita'   della
sospensione come  istituto  distinto  ed  alternativo  rispetto  alla
decadenza, e quindi anch'esso fondato sul presupposto di una sentenza
penale  di  condanna  definitiva,  afferma  che   non   esisterebbero
collegamenti rispetto all'esito del giudizio penale  d'appello  sulla
sentenza di primo grado. 
    Invero,  che  sospensione  e  decadenza  non  siano  in  rapporto
parallelo di alternativita', ma  di  omogenea  relazione  di  stretta
consecutivita' e' confermato dall'art. 11, quarto comma del d.lgs. 31
dicembre 2012 n. 235 che, in caso di rigetto dell'appello, prevede un
ulteriore  periodo  di  sospensione;  nemmeno  puo'   essere   negata
l'interferenza esistente  tra  progressione  del  processo  penale  e
ricadute sulla attuale  conservazione  della  carica  pubblica,  come
risulta  confermato  dai  successivi  commi  sesto  e  settimo  della
medesima disposizione, il primo dei quali  disciplina  la  cessazione
della sospensione al venir meno di una misura coercitiva  emessa  nei
confronti  dell'interessato   o   sentenza   anche   non   definitiva
favorevole, il secondo che stabilizza  gli  effetti  inibitori  nella
decadenza al passaggio in giudicato della sentenza; precisazione  che
sarebbe stata pleonastica, ossia iterativa della gia' prevista natura
definitiva della condanna, ove ritenuta non di natura procedimentale,
cioe'  riferita  alla  mutazione  in  decadenza  di  una   precedente
sospensione dalla carica. 
    Manifestamente infondata e' anche la  questione  di  legittimita'
costituzionale proposta nel settimo motivo di ricorso, per eccesso di
delega relativamente all'art. 1, comma 64, lettera h) della  legge  6
novembre 2012 n. 190 che, per  le  cariche  di  cui  alla  precedente
lettera g) - tra cui quella di Sindaco -  consentiva  al  legislatore
delegato di introdurre ulteriori ipotesi di incandidabilita', ma solo
per delitti di grave allarme sociale. A giudizio del ricorrente, tale
categoria di reati si identificherebbe con le sole fattispecie di cui
all'art. 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p.,  ipotesi  per  le  quali,
coerentemente con la legge delega, in caso di condanna, il d.lgs.  31
dicembre 2012 n. 235  aveva  previsto  agli  artt.  10,  primo  comma
lettere a) e b) e 11, primo comma, lettera  a),  la  decadenza  e  la
sospensione di diritto dalla carica pubblica. Non figurando  in  tale
categoria anche il delitto di abuso di ufficio di  cui  all'art.  323
c.p.,  la  sua  assunzione  come  fattispecie  di  decadenza   e   di
sospensione in caso di condanna penale eccederebbe i limiti posti dal
legislatore delegante. 
    Osserva il Collegio  che  nessun  utile  riferimento  di  diritto
positivo esiste nel senso di limitare  i  delitti  di  grave  allarme
sociale di cui  alla  legge  delega  alle  sole  fattispecie  di  cui
all'art. 51, commi 3-bis e 3-quater del codice di  procedura  penale;
pertanto, nel  sottenderne  l'ampia  discrezionalita',  la  legge  di
delegazione consente  al  legislatore  delegato  di  ricondurre  alla
categoria  dei  delitti  di  grave  allarme  sociale,  non  solo   le
fattispecie  associative  finalizzate   al   traffico   di   sostanze
stupefacenti, armi, criminalita' organizzata e terrorismo -  e  tutti
quelli a  cui  si  riconduce  la  competenza  del  procuratore  della
Repubblica distrettuale - ma anche differenti ipotesi delittuose,  la
cui commissione si ritiene  idonea  a  destare  preoccupazione  nella
generalita'  della   popolazione,   costituendo   manifestazione   o,
comunque, sintomo di  mancato  o  cattivo  funzionamento  di  settori
nevralgici della vita sociale;  e  non  appare  irragionevole  l'aver
compreso in tale categoria anche fattispecie  di  delitti  contro  la
pubblica amministrazione connotati da  una  certa  gravita',  proprio
nell'ottica del riordino della materia dell'incandidabilita',  a  cui
sottendono obiettivi di riassetto organizzativo e  di  moralizzazione
della amministrazione pubblica voluti dalla stessa legge  6  novembre
2012 n. 190; d'altronde, l'accostamento tra delitti rientranti  nella
categoria di cui all'art.  51,  commi  3-bis  e  3-quater  c.p.p.  ed
ipotesi di reato contro la pubblica amministrazione non e'  soluzione
nuova nella legislazione interna, essendo sufficiente il rinvio  alla
disciplina di cui al d.p.r. 6 settembre 2011 n.  159  in  materia  di
antimafia  che  tende  ad  esaltare  la  stretta   correlazione   tra
criminalita' organizzata e  cattiva  amministrazione  ai  fini  della
rilevazione degli elementi indiziati necessari per l'applicazione  di
misure amministrative di prevenzione. 
    Non  manifestamente  infondata  e'   invece   la   questione   di
legittimita' costituzionale proposta nel quarto  motivo  di  ricorso,
relativamente all'efficacia retroattiva della disposizione  normativa
di cui all'art. 11 del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235. 
    Va premesso che,  in  assenza  di  una  normativa  transitoria  o
comunque di disposizioni specifiche al  riguardo,  occorre  procedere
nell'indagine facendo ricorso ai principi generali dell'ordinamento. 
    A tal proposito, il  principio  di  irretroattivita'  e'  sancito
nell'art.11 delle Disposizioni sulla Legge in Generale che recita «la
legge  non  dispone  che  per  l'avvenire:  essa   non   ha   effetto
retroattivo»  e  trova  copertura   costituzionale,   attraverso   il
rafforzamento del divieto da parte dell'art. 25, secondo comma  della
Carta, per le leggi  «punitive»,  identificate  dalla  giurisprudenza
costituzionale in quelle in materia penale. 
    Nella prospettazione del ricorrente la  violazione  del  suddetto
principio garantistico riposerebbe  sulla  circostanza  per  cui  una
lettura costituzionalmente orientata dal  dato  normativo  esigerebbe
che di epoca successiva all'entrata in vigore del d.lgs. 31  dicembre
2012  n.  235  dovrebbe  essere  non  solo  la  sentenza,   come   e'
incontestato nel caso in esame, ma anche il fatto storico qualificato
come delitto che ne costituisce la res iudicanda. 
    Il  ricorrente  ha  ritenuto  la  violazione  del  principio  di'
irretroattivita', sia con riferimento alla sua qualita'  di  soggetto
candidato, sia come incidente sulla sua attuale carica di Sindaco, la
cui  sospensione  dalle  funzioni  sarebbe   da   qualificarsi   come
incandidabilita' sopravvenuta. 
    Sotto il primo  profilo  e'  stato  obiettato  che  la  rilevanza
riconosciuta alla pendenza di un procedimento penale all'epoca  della
candidatura, integrata attraverso la successiva sentenza di condanna,
avrebbe sulla condizione di soggetto candidabile del ricorrente, illo
tempore per nulla esposta al rischio  di  una  futura  sospensione  o
decadenza per effetto di pronunce sfavorevoli per il delitto  di  cui
all'art. 323 c.p.; allo stesso, modo ne  sarebbe  risultata  alterata
anche la genuinita' della competizione elettorale, essendosi il corpo
elettorale espresso in favore di chi all'epoca sapeva che non sarebbe
mai stato sospeso o dichiarato  decaduto  a  seguito  di  una  futura
condanna per un delitto che all'epoca mai avrebbe  inciso  sulla  sua
qualita' di Sindaco. 
    La tesi non convince. 
    Va premesso che costituisce principio  generale  dell'ordinamento
quello per cui una  legge  successiva  puo'  incidere  su  precedenti
posizioni giuridiche, ma  entro  il  limite  della  salvaguardia  dei
diritti quesiti e dei rapporti esauriti. Trattasi  di  un  corollario
del  principio  generale   di   irretroattivita',   nel   senso   che
l'ordinamento  pone  un  limite  alla   possibilita'   di   incidenza
sfavorevole di una nuova normativa che, sebbene volta a disporre  per
il tempo futuro, in coerenza con l'art.11  delle  Disposizioni  sulla
Legge in Generale, finisce  comunque  per  intervenire  su  posizioni
giuridiche durevoli o non  compiutamente  definite,  insidiando  quel
principio di  affidamento  dei  cittadini  nei  confronti  del  quale
nemmeno il legislatore  deve  mostrarsi  insensibile.  Pertanto,  non
sarebbe possibile ad una  legge  sopravvenuta  sopprimere  e  nemmeno
limitare  posizioni  giuridiche  consolidate,  la  cui  stabilita'  e
definitivita' costituisce condizione implicita di irretroattivita'. 
    Ai fini del presente giudizio, la presenza di diritti  quesiti  e
rapporti esauriti in capo al ricorrente va accertata in relazione  al
rapporto   esistente   tra   soggetto   e   procedimento   elettorale
quest'ultimo da intendersi in senso ampio,  cioe'  comprensivo  anche
delle  fasi,  e  relativi  diritti,  riconducibili   alle   attivita'
preparatorie per l'accesso  alla  competizione  elettorale  -  ed  in
particolare alla sussistenza di una fluente ed omogenea relazione  di
tipo endoprocedimentale tra i suoi atti, oppure  al  rinvenimento  al
suo interno di posizioni differenziate  e  parzialmente  autonome  in
capo  al  soggetto  che  vi  partecipa,   tale   da   consentire   la
configurazione di  status  e  qualita'  personali  la  cui  rilevanza
giuridica non sia immanente,  ma  storicamente  collocabile  solo  in
alcune  fasi  del  procedimento;  in  altri  termini,  si  tratta  di
verificare  la  percorribilita'  giuridica  in  senso  inverso  della
sequenza  procedimentale   tipica   (recte   della   relazione   atto
presupposto/atto  consequenziale),  al  fine   di   verificare,   se,
contrariamente  a  quanto  accade  nella  dinamica   ordinaria,   che
trasmette a valle tutta la  funzione  esercitata  concentrandola  nel
provvedimento, anche nella prospettiva del soggetto destinatario  del
potere, nel caso del procedimento elettorale esistano delle posizioni
preparatorie  ed  intermedie   che,   nonostante   l'evoluzione   del
procedimento, conservino autonoma rilevanza  giuridica,  sganciandosi
dalla produzione degli  effetti  finali,  quantunque  favorevoli.  In
altri termini, occorre chiedersi se, rispetto  alla  conclusione  del
procedimento elettorale in senso favorevole ad un  candidato,  questi
conservi ancora, come giuridicamente rilevante, lo status di soggetto
candidabile. 
    Al quesito deve rendersi risposta negativa, dal  momento  che  la
qualita' di soggetto candidabile e'  destinata  ad  esaurire  la  sua
funzione tipica una volta conclusosi il procedimento  elettorale,  al
cui esito potra' seguire lo status  di  candidato  non  eletto  o  di
eletto e, in quest'ultimo caso, la  nomina;  atteso  il  rapporto  di
consecutivita' che  caratterizza  il  procedimento,  e  nella  specie
quello elettorale, anche la posizione  soggettiva  dell'interlocutore
del potere evolve e si  modifica,  non  restando  piu'  la  medesima;
inoltre, la progressione del procedimento elettorale, ma  soprattutto
la sua conclusione, finisce per  rendere  la  posizione  di  semplice
soggetto candidabile non solo superata, ma  anche  incompatibile  con
quella di eletto, trattandosi, in  fondo,  della  medesima  posizione
vista nella prospettiva del suo  divenire;  invero,  la  qualita'  di
candidato finisce per rifluire completamente nello status di  eletto,
esaurendo cosi' completamente ogni ulteriore ed autonoma funzione. 
    A ben vedere, si tratta dell'applicazione del generale  principio
procedimentale  del  tempus  regit  actum  che  riconosce   giuridica
rilevanza alle sole posizioni attuali, concorrenti  con  l'evoluzione
del dispiegarsi della funzione esercitata. 
    Di tali coordinate e' stata fatta puntuale applicazione da  parte
del d.lgs. 31  dicembre  2014  n.  235 che  distingue  tra  cause  di
incandidabilita' da un lato e cause di decadenza e sospensione  dalla
carica dall'altro, non solo inquadrandone l'efficacia  rispetto  alla
specifica fase storica del procedimento elettorale su  cui  vanno  ad
incidere, ma senza neanche dare  vita  tra  queste  a  commistioni  o
sovrapposizioni di  sorta.  Nel  caso  di  specie,  il  provvedimento
prefettizio  impugnato  costituisce   espressione   del   potere   di
rilevazione di una causa ostativa  alla  prosecuzione  dell'esercizio
della carica  di  Sindaco,  senza  alcuna  riferibilita'  anche  alla
presupposta e ormai superata qualita' di candidato del ricorrente, la
cui funzione ha  da  tempo  esaurito  i  suoi  effetti,  evolutisi  e
confluiti nell'esito a lui favorevole della competizione elettorale. 
    Dubbi di legittimita' costituzionale  sorgono,  invece,  riguardo
agli artt. 11, primo comma, lettera a) e 10, primo comma, lettera c),
nella parte in cui, nel prevedere quale causa di sospensione -  oltre
che di decadenza e di incandidabilita' - la condanna  non  definitiva
per alcuni  delitti,  tra  cui  quello  di  cui  all'art.  323  c.p.,
attraverso  il  provvedimento  prefettizio  impugnato   le   predette
disposizioni  normative  sono  state  applicate  retroattivamente  al
ricorrente quale Sindaco in carica del Comune di Napoli. 
    Non ignora il Collegio  l'esistenza  dei  recenti  arresti  nella
giurisprudenza amministrativa di legittimita' che  hanno  escluso  la
retroattivita' delle previsioni normative  de  quibus  (Consiglio  di
Stato V Sezione 6 febbraio 2013 n. 695; Consiglio di Stato V Sezione,
29 ottobre 2013 n. 5222; TAR- Lazio II bis, 8 ottobre 2013 n.  8696),
ritenendo applicabili le cause ostative anche laddove la sentenza  di
condanna penale irrevocabile sia intervenuta in un tempo  antecedente
all'entrata in vigore del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235, ossia il  5
gennaio 2013. 
    In particolare, nel richiamare specifici orientamenti della Corte
Costituzionale in materia  e'  stato  evidenziato  che  «la  condanna
penale  irrevocabile e'  stata  presa  in  considerazione  come  mero
presupposto oggettivo cui e' ricollegato un giudizio  di  «indegnita'
morale» a ricoprire determinate cariche elettive: la condanna  stessa
viene, cioe', configurata quale «requisito negativo»  ai  fini  della
capacita' di assumere e di  mantenere  le  cariche  medesime»  (Corte
Costituzionale 31 marzo 1994 n. 118); ne' il divieto di  applicazione
retroattiva  potrebbe  trovare  copertura  costituzionale  ai   sensi
dell'art. 25, secondo comma della Carta, attraverso la qualificazione
in  termini  sanzionatori  o  comunque  punitivi   nelle   cause   di
incandidabilita', sospensione e  decadenza  previste  dal  d.lgs.  31
dicembre 2012 n. 235,  atteso  che  secondo  costante  giurisprudenza
costituzionale, l'invocato principio si riferisce alle sole  sanzioni
penali (Corte Costituzionale, 31 marzo 1994 n. 118, 14 luglio 1988 n.
823, 3 giugno 1992 n. 250; 14 aprile 1988 n. 447) e, a  giudizio  del
Collegio, all'istituto della  sospensione  di  cui  all'art.  11  del
d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235, sebbene  difficilmente  possa  essere
negata efficacia sanzionatoria, non puo'  essere  riconosciuta  anche
natura penale. 
    Inoltre, la giurisprudenza costituzionale  ha  ritenuto  che  non
costituisce irragionevole limitazione del diritto  di  elettorato  di
cui  all'art.  51  della  Costituzione  l'aver  attribuito  immediata
operativita'   «all'elemento   della   condanna   irrevocabile    per
determinati gravi delitti una rilevanza cosi' intensa, sul piano  del
giudizio di indegnita' morale del soggetto, da esigere, al  fine  del
miglior  perseguimento  delle   richiamate   finalita'   di   rilievo
costituzionale della  legge  in  esame,  l'incidenza  negativa  della
disciplina medesima anche sul mantenimento delle cariche elettive  in
corso al momento della sua entrata in vigore» (Corte  Costituzionale,
31 marzo 1994 n. 118). 
    Osserva il  Collegio  che  l'interpretazione  fatta  propria  nei
richiamati arresti  non  autorizza  a  ritenere  esclusa  l'efficacia
retroattiva della norma,  ossia  che  essa  nei  casi  descritti  non
disponga per l'avvenire, ma giustifica solo il  superamento  di  tale
limite, perche' dal legislatore e'  ritenuto  prevalente  l'interesse
alla salvaguardia della moralita' dell'organizzazione degli organi di
governo degli apparati pubblici. 
    In tal modo,  i  principi  espressi  nella  citate  pronunce  non
consentono di risolvere in via interpretativa anche  i  pregiudiziali
problemi di compatibilita' costituzionale della  normativa  applicata
al caso concreto, dal momento che la vicenda sottoposta all'esame del
Collegio riguarda un provvedimento di sospensione adottato a  seguito
e per effetto di una condanna penale non definitiva,  non  essendosi,
quindi, in presenza di una pronuncia irrevocabile come,  invece,  nei
casi esaminati nei citati  precedenti  giurisprudenziali;  e  che  si
tratti di una situazione del tutto diversa si evince,  non  solo  dai
differenti effetti che conseguono, anche dal  punto  di  vista  della
disciplina penale, all'emanazione di  una  sentenza  di  primo  grado
rispetto alla sua successiva condizione di irrevocabilita', ma  anche
dal fatto che  una  lettura  costituzionalmente  orientata  del  dato
normativo non autorizza l'interprete a presumere  la  sussistenza  di
una  situazione  di  indegnita'  morale  che  legittimi  l'inibizione
dell'accesso ad  una  carica  pubblica  o  la  sua  perdita,  e  cio'
superando il divieto di retroattivita', anche nel diverso caso in cui
si sia in presenza di una sentenza non definitiva, laddove si osservi
pure che quest'ultima interviene come prima  statuizione  nell'ambito
di un modello verticale del processo' penale che  consta,  nella  sua
dinamica ordinaria, di non meno di tre gradi progressivi di giudizio. 
    I dubbi di legittimita' costituzionale dell'art. 11 del d.lgs. 31
dicembre 2012 n. 235 sulla violazione del divieto  di  retroattivita'
ove sia una sentenza non passata in cosa giudicata a  determinare  la
sospensione dalla carica, si fondano su due presupposti. 
    Innanzitutto, vi e' la natura sanzionatoria  dell'istituto  della
sospensione. 
    Come  gia'  rilevato,  non  e'  intendimento  di  questo  giudice
disallinearsi dagli approdi a cui  e'  giunta  la  giurisprudenza  di
legittimita' nella  parte  in  cui  ha  individuato  la  ratio  legis
nell'esigenza,   fortemente    sentita,    di    preservare,    anche
cautelativamente, l'amministrazione pubblica, ai livelli considerati,
dalla presenza e partecipazione di chi si sia reso moralmente indegno
(Corte Costituzionale 29 ottobre 1992 n. 407), sebbene cio' avvenga -
non  puo'  negarsi  -  in  base  ad  una  presunzione   assoluta   di
inidoneita', in ragione del  solo  titolo  del  reato,  senza  alcuna
valutazione del fatto concreto giudicato, nemmeno dal punto di  vista
dell'esame delle considerazioni poste dal giudice penale a fondamento
della  condanna;  scelta  che,  in  verita',  non  consentirebbe   di
assolvere la soluzione legislativa adottata da dubbi di  legittimita'
costituzionale, avuto riguardo all'omessa  ricerca  di  un  punto  di
equilibrio sia rispetto al diritto di elettorato, attivo  e  passivo,
sia rispetto all'esigenza concreta ed effettiva  di  allontanare  chi
sia «moralmente indegno». 
    Su un distinto piano, s'intende rilevare che  riconoscere  natura
sanzionatoria,    e    comunque     afflittiva,     agli     istituti
dell'incandidabilita', sospensione e decadenza non significa  affatto
negare l'esistenza di ulteriori finalita', anche principali,  che  la
disciplina legislativa in  esame  pone  a  fondamento  della  propria
giuridica  esistenza;  d'altronde,  non  sono  di  certo  sconosciuti
all'ordinamento giuridico poteri di regolazione, anche non normativi,
che, implicando la valutazione  di  diversi  interessi  intercettati,
impongono al titolare di  perseguire  la  finalita'  avuta  di  mira,
tuttavia  modulandola  con  la  necessita',  imposta,   di   tutelare
posizioni  con  questa  interferenti;  tutela  che  puo'   risolversi
attraverso la previsione di garanzie  di  tipo  partecipativo  o  con
connotazioni specifiche del precetto sostanziale  da  applicarsi  che
tenga conto - in cio' limitandosi -  di  specifiche  prerogative  del
destinatario del potere. 
    Da   tale   punto   di   vista,   l'esigenza    di    immunizzare
l'amministrazione pubblica al  fine  di  preservarne  l'imparzialita'
attraverso istituiti quali l'incandidabilita', la  sospensione  o  la
decadenza da cariche,  reca  in  se'  l'immanenza  di  un  conflitto,
imponendo il sacrificio del diritto di chi a quella carica  aspira  o
ne e' stato investito. 
    E se attraverso l'automatica operativita' della causa  limitativa
il  legislatore  ha,  di  fatto,   inteso   azzerare   il   confronto
procedimentale, non puo' spingersi la sua  discrezionalita'  fino  al
punto di negare natura di vera e propria sanzione ad  istituti  tanto
incisivi sull'esercizio di un diritto costituzionale, quale quello di
accesso alle cariche pubbliche di cui all'art. 51 della Carta. 
    A ben vedere, che si' tratti di misure afflittive e' aspetto  che
non ha ignorato nemmeno il legislatore  delegato  che  nell'art.  15,
secondo   comma,   nel   prevedere    l'autonomia    degli    effetti
dell'incandidabilita'  rispetto   all'interdizione   temporanea   dai
pubblici  uffici,  mostra  di  averne  assimilato  l'identita'  quoad
effectum  ed  ancora  nel  comma  successivo  in   cui   ne   ammette
l'estinzione a seguito di riabilitazione in penale,  come  remissione
degli effetti di un regime indiscutibilmente sanzionatorio. 
    Il secondo presupposto, cui in parte si  e'  gia'  accennato,  e'
costituito dall'efficacia retroattiva dell'istituto della sospensione
dalla carica, applicato  in  presenza  di  una  condanna  penale  non
definitiva. 
    In disparte la possibilita' per il legislatore di dare  giuridica
rilevanza a fini sanzionatori a fatti accaduti in un tempo  anteriore
rispetto all'entrata in vigore della legge che li qualifica, e' certo
che la sospensione di un amministratore da una carica  per  un  fatto
storicamente  anteriore  rispetto  alla  sua  elezione,  cosi'   come
anteriore ne e' il provvedimento giudiziario che a questo da'  a  tal
fine rilevanza, costituisce, oggettivamente, applicazione retroattiva
della norma. 
    Ebbene, ritiene il Collegio che l'applicazione retroattiva di una
norma sanzionatoria, anche di natura non penale  ai  sensi  dell'art.
25, secondo comma della Costituzione, urta  con  la  pienezza  ed  il
regime rafforzato di diritti costituzionalmente garantiti,  tutte  le
volte in cui la Carta rimette alla disciplina legislativa  il  regime
ordinario di esercizio di quel diritto; pertanto, ove vi sia  riserva
di legge per la disciplina di diritti fondamentali riconosciuti dalla
Carta, assumono rango costituzionale anche i  principi  generali  che
disciplinano  la  fonte  di   produzione   normativa   primaria;   di
conseguenza, essendo il divieto di retroattivita' di cui all'art.  11
delle Disposizioni sulla Legge in Generale, uno dei principi  su  cui
si fonda l'efficacia della legge nel  tempo,  la  sua  violazione  e'
anche violazione del diritto che  la  Costituzione  espressamente  la
chiama a disciplinare e proteggere. 
    In questo senso, l'art. 51 della Costituzione nell'affidare  alla
legge l'individuazione  dei  requisiti  per  l'accesso  alle  cariche
pubbliche, quindi la disciplina positiva per l'esercizio del  diritto
di elettorato passivo, cio' consente nei limiti  fisiologici  entro i
quali  alla  legge  stessa   e'   consentito   operare,   cioe'   non
retroattivamente. 
    Si aggiunge che la forza di tale  assunto  s'intensifica,  tenuto
conto del primo dei citati postulati, ossia la  natura  sanzionatoria
delle cause ostative di cui al d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235  -  tra
cui figura la sospensione dalla  carica  applicata  al  ricorrente  -
attesa l'inderogabilita' assoluta del principio  di  irretroattivita'
nell'ambito di istituti e regimi in  buona  parte  assimilabili  alle
sanzioni penali. 
    Ora, anche  per  l'assenza  di  una  norma  transitoria,  non  e'
possibile in via interpretativa al giudice del  merito  risolvere  la
questione  della  legittimita'  costituzionale  del  superamento  del
limite costituito dal divieto di  retroattivita'  della  legge  anche
nell'ipotesi in cui la sospensione dalla carica sia prevista in  caso
di   condanna   non   definitiva;   il   dubbio   di   compatibilita'
costituzionale concerne la sussistenza di un eccessivo sbilanciamento
in favore della previsione normativa di tale  misura  cautelativa  di
salvaguardia della moralita' dell'amministrazione  pubblica  rispetto
all'ampio favor da riconoscersi alle facolta' di pieno esercizio  del
diritto soggettivo di elettorato passivo di cui  all'art.  51,  primo
comma della Costituzione, da ritenersi inviolabile ai sensi dell'art.
2 della Carta, nonche' posto a  fondamento  del  funzionamento  delle
istituzioni  democratiche  repubblicane,  secondo   quanto   previsto
dall'art. 97, secondo comma, ed espressione del dovere di svolgimento
di una funzione sociale che sia stata frutto di una libera scelta del
cittadino, ai sensi dell'art. 4, secondo comma. 
    Conclusivamente, il Collegio ritiene necessario  sottoporre  alla
Corte   Costituzionale   questione   incidentale   di    legittimita'
costituzionale, rilevante ai fini della definizione  del  giudizio  a
quo, dell'art. 11, primo comma, lettera a)  del  d.lgs.  31  dicembre
2012 n. 235, in relazione all'art.10,  primo  comma  lettera  c)  del
medesimo decreto legislativo perche' la sua applicazione  retroattiva
si pone in contrasto con gli artt. 2, 4,  secondo  comma,  51,  primo
comma e 97, secondo comma della Costituzione. 
    Ai sensi dell'art. 23, secondo comma della legge 11 marzo 1953 n.
87 il giudizio e' sospeso fino  alla  definizione  dell'incidente  di
costituzionalita'. 
    Ai sensi dell'art. 23, quarto comma della legge 11 marzo 1953  n.
87 la presente ordinanza sara' notificata alle parti costituite e  al
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  nonche'   comunicata   ai
Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica. 
    Quanto all'istanza cautelare proposta  dal  ricorrente,  ai  fini
della  cui  compiuta  delibazione  la   questione   di   legittimita'
costituzionale sollevata anche assume piena  rilevanza,  al  fine  di
conciliare il carattere accentrato del sindacato di costituzionalita'
con il principio di effettivita' della tutela giurisdizionale  (artt.
24 e 113 Cost.;  art.  6  e  13  della  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali), il
Collegio ritiene  di  concedere  una  misura  cautelare  "interinale"
(sentenze n. 444 del 1990, n. 367 del 1991; n. 30 e n. 359 del  1995;
n. 183 del 1997, n. 4 del 2000; ordinanza n. 24 del 1995 e n. 194 del
2006), fino alla camera di  consiglio  successiva  alla  restituzione
degli atti da parte della Corte costituzionale (Consiglio di Stato 26
ottobre 2011, ordinanza n.  4713);  a  tal  fine,  sussistendo,  allo
stato, il fumus boni iuris relativamente al quarto motivo di ricorso,
essendo l'impugnato provvedimento prefettizio di sospensione  fondato
su un'interpretazione dell'art. 11 del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235
che si pone in contrasto  con  le  richiamate  norme  costituzionali,
nonche' un pregiudizio grave  ed  irreparabile  per  le  ragioni  del
ricorrente, ascrivibile all'irrecuperabilita' del  tempo  di  mancato
esercizio della sua  funzione  di  Sindaco  di  Napoli,  deve  essere
disposta la sospensione del provvedimento prefettizio impugnato  fino
alla ripresa del giudizio cautelare dopo l'incidente di  legittimita'
costituzionale. 
    Le spese della  fase  cautelare  del  presente  giudizio  saranno
regolate  all'esito  della  camera  di  consiglio   successiva   alla
risoluzione dell'incidente di costituzionalita'.